Teatro

Gaber raccontato da Andrea Scanzi

Gaber raccontato da Andrea Scanzi

Il 27 marzo 2013 al Liceo Classico Colombo di Genova gli studenti hanno incontrato Andrea Scanzi, giornalista de Il fatto quotidiano e saggista. Presenti anche noi di Teatro.org, invitati per porre qualche domanda a Scanzi, che si trovava nel capoluogo ligure poiché in tournée con lo spettacolo Gaber se fosse Gaber (26-27 marzo, Teatro Duse). È stato Andrea Bianchi, docente del Liceo, a presentare il giornalista, a facilitare il dialogo e a promuovere il confronto. Scanzi ha risposto alle domande di studenti e invitati non soltanto mostrando una competenza notevole ma anche coinvolgendo i presenti.

(Andrea Bianchi) Perché hai scelto di dedicare due spettacoli a Gaber e De André? Che cosa hanno in comune?

Ricordo ancora quando nel 1991 ho visto per la prima volta Giorgio Gaber sul palco. De André lo puoi sentire e basta, Gaber no. Lo disinneschi. Questa è la prima differenza tra loro due. A 17 anni quando ti arriva addosso un fenomeno di presenza scenica, di rabbia, di incazzatura, di provocazione, di divertimento, come Giorgio Gaber, la mappatura mentale viene completamente archiviata, tutto quello che si crede di sapere non funziona più. È un effetto che non fanno in tanti. Lo fa Pasolini. Chi legge Pasolini deve rimappare completamente il proprio sistema. Per Gaber è la stessa cosa. L’approccio problematico e critico alle cose è un aspetto che Gaber ha in comune con De André. È raro che loro diano delle risposte. De André aveva la grande capacità di trovare il buono nel cattivo e viceversa: Il pescatore era un assassino, però alla fine della canzone in qualche modo si solidarizza con lui; stessa cosa accade ne La domenica delle salme, invettiva che racconta dieci-trent’anni di Italia. In ogni canzone è così. Questo rovesciamento del bene e del male è sempre presente. Così è in Gaber. La sua più grande paura era quella che allo spettatore, uscendo da un suo spettacolo, non fosse rimasto niente. Non temeva che alla gente non piacesse lo spettacolo, temeva di essere risultato neutro. Ma questo era impossibile. Gaber era uno che ti dava dei cazzotti in faccia da far davvero male. Però questo suo modo di fare spingeva a tenere sempre alto il livello di coscienza. Questo era un altro aspetto dunque che Gaber e De André avevano in comune, così come la volontà di andare sempre “in direzione ostinata e contraria”, non tanto perché volessero provocare ma perché era il loro ruolo di intellettuali. E qual è un’altra cosa che li ha accomunati? Quando sono morti sono stati santificati. D’un tratto piacevano a tutti. Eppure io ricordo i loro ultimi concerti, ricordo che c’era una stampa entusiasta e un’altra che invece li criticava anche ferocemente. Gaber negli ultimi anni era stato completamente abbandonato soprattutto dalla sinistra che teoricamente era la sua parte. Ricordo un articolo di Luca Canali, intellettuale che scriveva per l’Unità, che pubblicò una recensione sullo spettacolo Un’idiozia conquistata a fatica, con un richiamo in prima pagina, il cui titolo era Il Triste tramonto di un menestrello. Si trattava di una stroncatura violentissima –che ci stava anche, per carità-, però era stata scritta da uno che dichiarava di non aver visto lo spettacolo. Questo articolo testimonia come la sinistra avesse scomunicato Gaber, perché Gaber era quello che aveva insultato, che aveva accusato la sinistra e che per di più aveva sposato una donna –Ombretta Colli- diventata un’esponente di Forza Italia. Quando sono morti, sia De André sia Gaber, improvvisamente piacevano a tutti. Quando si santifica una figura come De André o come Gaber secondo me le si fa del male, la si neutralizza. Se uno rende mansueto Pasolini, non è più Pasolini. L’ultima differenza -e questa è puramente tecnica- riguarda il fatto che dal punto di vista discografico con Giorgio Gaber è tutto più complicato: quando approdò al teatro non faceva più dischi, registrava semplicemente i suoi spettacoli. Nel 1970, dopo essere stato dieci anni in televisione e dopo essere stato una delle figure più famose d'Italia, aveva cominciato a far teatro. Ma sul palcoscenico non cantava più Torpedo blu, Goganga, etc, piuttosto si presentava con un genere nuovo in Italia: il teatro-canzone. Ancora negli anni Novanta c’erano sempre degli spettatori che dopo la terza o quarta canzone cominciavano ad arrabbiarsi perché aspettavano il Gaber di Non arrossire. Insomma, paradossalmente, ancora negli anni Novanta non lo si conosceva. Nel mio spettacolo faccio sentire a un certo punto Quando è moda è moda, una canzone che fa capire molto di Gaber, eppure anche il gaberiano più preparato spesso non conosce questo pezzo. Quindi per De André c’è una grande conoscenza, per Gaber no. Per Giorgio è necessario un cicerone, una guida, qualcuno che prenda per mano e conduca nel suo mondo. Ecco perché forse lo spettacolo su Gaber che sto facendo mi piace di più, perché mi sento più utile, cerco di far conoscere il Gaber “clandestino”, insomma c’è anche un approccio pedagogico.

(Andrea Bianchi) E forse c’è l’intenzione di desacralizzare Gaber scegliendo dei brani che volutamente sono meno noti e più provocatori; c’è quindi nel tuo spettacolo la volontà di non celare gli aspetti di Gaber più controversi, il modo in cui ha saputo entrare in rapporto dialettico con le mode e con lo spirito del tempo.

Giorgio Gaber è stato un osservatore meticoloso della società. Negli anni Settanta i suoi spettacoli sono saturi di politica, sono saturi di desideri di appartenenza, di idee e di ideologie, di incazzature, di divertimenti, perché quelli erano “gli anni affollati”, come li chiamava lui. Erano anni in cui cominciavano a emergere sintomi inquietanti. E Gaber era uno che stava –sì- a sinistra ma bastonava sempre. Era un compagno critico, in realtà non era neanche compagno. Non credeva fino in fondo nelle potenzialità rivoluzionarie della sua parte. Nel 1978 rompe con la sinistra –meglio, con una buona parte della sinistra- ma negli anni Ottanta cambia nuovamente. Nei suoi spettacoli non si parla più di politica. Gaber si rende conto che gli impulsi della politica non ci sono più -perché era scomparsa- e non c’è più il desiderio del cambiamento. Racconta il nostro periodo ma il suo stesso pubblico fa fatica. Era impegnativo stare dietro a Gaber. Spesso i suoi spettacoli sono interamente in prosa. Negli anni Novanta c’è il ritorno della politica. Nel 1992 arriva infatti tangentopoli, che trasforma la Prima Repubblica in una Seconda che doveva essere migliore della prima. Gaber ritorna a fare politica ma con una grande disillusione. Avverte che “l’albero” -l’uomo- pur affermando di voler cambiare il mondo in realtà non lo fa. Nelle ultime interviste batteva sempre il tasto su due concetti: l’uomo ha raggiunto il livello minimo di coscienza e ha completamente smarrito la capacità di indignarsi, è ignifugo a qualsiasi emozione, a qualsiasi rabbia. A questo è da aggiungere il definitivo approdo all’analisi di Pasolini. Quello degli ultimi anni dunque è un Gaber dolente, proprio perché aveva perso la fiducia nell’essere umano, nella capacità che l’uomo doveva avere di cercare anche dei maestri, dei riferimenti, qualcosa che in qualche modo lo scuotesse. Provava dal palco a buttare giù qualcosa, a provocare veri e propri elettroshock, quasi a voler dire svegliatevi. Ci riusciva, in fondo. Dopo aver visto un suo spettacolo avevi una quantità industriale di dati e ti sentivi molto carico, ma facevamo parte di una nicchia, di un'élite, facevamo parte di una razza in estinzione e per di più l’effetto durava poco.

(Isa Morando) Ricordo uno spettacolo stupendo intitolato Il grigio. Ce ne vuole parlare un po’?

È del 1989. Si tratta di un uomo che deve ritrovare se stesso, la propria serenità e decide così di isolarsi in una casa lontana da tutto, dalla società, dal frastuono. Sembra inizialmente stare meglio poi però arriva la metafora che dà il timbro allo spettacolo. Che cos’è il grigio? Il grigio è la minaccia che si muove in questa casa. Si tratta di un topo. Una scintilla occasionale -poi si scoprirà che forse neanche esiste- ma che basta per mandare in confusione qualsiasi certezza. Così la persona che doveva ritrovare se stessa, di fatto impazzisce, perde completamente il senno, perde qualsiasi riferimento, qualsiasi punto cardinale. Qual era il messaggio di questa metafora? Secondo Gaber-Luporini, alla fine degli anni Ottanta, l’uomo –l’albero- era diventato pazzo e lo era divenuto non per una minaccia reale ma per un pericolo imprecisato.

(Studente) Lei prima parlava dell’albero, una metafora che ritorna spesso in Gaber. Da quando Gaber è morto quell’albero in che condizioni si trova?

È una domanda che mi fanno spesso e che io stesso mi pongo. Credo che da quando Giorgio se n’è andato e negli anni successivi abbiamo vissuto un momento di grande adagiamento. Credo però che adesso qua e là qualcosa si stia muovendo. Mi piace spesso citare una canzone di Luca e Paolo i quali, al Gaber che sosteneva che la sua generazione aveva perso, rispondono che la nostra non ha nemmeno toccato il pallone. La nostra generazione, quella dei quarantenni, non ha mai giocato. La domanda è se scenderete in campo voi. Io me lo auguro. La mia generazione ha fallito in maniera drammatica. Spero che la vostra ci stupisca. Comunque in noi italiani c’è un po’ la tendenza ad autoassolverci, ad adagiarci. Adesso voi avete questo desiderio di cambiare le cose. Da qui la democrazia diretta, il M5S, la Rete. Mi sembra che si muova tutto in maniera abbastanza confusa, ma rispetto alla stasi di sei-sette anni fa è molto meglio così.

(Giusy Randazzo) Gaber rimane un personaggio scomodo, anche se c’è stato questo tentativo -di cui ci ha parlato- di disinnescarlo. Anche lei è un personaggio scomodo, non soltanto come giornalista, ma come intellettuale. Si riconosce questo aspetto e questa consonanza con Gaber?

Il rischio di rispondere a questa domanda positivamente è quello di farmi un complimento da solo. Però in effetti è un aspetto che mi appartiene, spesso hanno definito anche me “scomodo”. Dicendo quel che penso e andando in televisione a dire quel che penso, i problemi vengono fuori: arrivi alla fine, hai scritto un articolo e hai fatto arrabbiare sia quelli di sinistra sia quelli di destra. Ma proprio come affermava Gaber il rischio da cui bisogna fuggire è quello di lasciare indifferenti i lettori o gli spettatori. A me interessa che la persona, dopo avermi letto, magari è anche incavolata, ma le è comunque rimasto dentro qualcosa. Invece per decenni abbiamo avuto giornalisti che scrivevano dando un colpettino qua e uno là, in nome di una sobrietà che non ha valore. Preferisco essere un personaggio scomodo che fa arrabbiare.

(Studente) Con quale parte della sinistra Gaber ruppe? E per quali motivi?

È una domanda molto complessa. In sintesi potremmo dire che per esempio il Movimento del ‘77 non convinceva Gaber e Luporini. Sembrava che giocassero alla rivoluzione. Mentre molti lo pensavano e non lo dicevano, Gaber invece saliva sul palco e diceva in faccia “Siete finti”, “la vostra è una moda”, “Quando è merda è merda”. Risultava sgradevole, dunque. Era senza dubbio un personaggio scomodo. Era –sì- di sinistra ma non di quella sinistra. Quella sinistra lo faceva incazzare.

(Giusy Randazzo) Pensa che il termine populista abbia soltanto un’accezione negativa?

No, secondo me ha un’accezione anche positiva, ma questa mia analisi è altamente minoritaria. Populista è diventata una parola magica per disinnescare chiunque dica cose di buon senso; se uno dice una cosa condivisibile è populista. E allora, se è così, va bene essere populisti.

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Sito di Andrea Scanzi: https://www.andreascanzi.it

Sito della Fondazione Giorgio Gaber: https://www.giorgiogaber.it